Breve storia di un circa 15-20 minuti

Eccomi qui. Ho pensato a scaraventare quello che mi ribolliva dentro su carta per tutti i 20 minuti di camminata veloce dalle poste fino a qui, e adesso guardo il bianco dello schermo e mi sento vuota, svuotata.
In fondo si trattava soltanto di una mattina alle poste, a pagare la differenza di prezzo tra il mandare un pacco in Germania e uno in Italia. Il concetto semplice era: "Se ci avessi messo 15-20 minuti, sarebbe valsa la pena aspettare che lui ripassasse a prendermi per portarmi a casa. Che stamani li' vicino, ne aveva per quindici, venti minuti." Avrei evitato una incombente pioggia e una brvee camminata a piedi.
Come previsto alle poste ci ho messo 20 minuti, e come previsto lui non e' arrivato. Perche' era previsto, io lo sapevo, che lui non sarebbe arrivato. Che i suoi quindici, venti minuti non sono come i miei, e di fatto non sono mai quindici, venti minuti. Io lo so che lui si arrabbia quando dico questo, e quindi stavolta lo scrivo, e non lo dico. So che non e' colpa sua, che le sue intenzioni di brevita' naufragano sempre sulle esigenze dei clienti. L'esperienza pero', dovrebbe insegnare, mentre lui rifiuta di imparare, di accettare che le cose vanno cosi'.
Io lo so, ma la conoscenza non mi salva dal meccanismo perverso della rabbia, in risposta al senso di abbandono. E mentre camminavo mi sono resa conto che questa microstoriella e' proprio il paradigma di cio' da cui non posso proteggermi, e che gia' mi feri' profondamente, tanti anni fa. Che qualcuno che ami, che e' proprio il centro della tua vita, di colpo, senza segnali, senza segni premonitori, sparisce. Fino a un secondo prima andava tutto bene, e dopo non c'e' piu' niente. Il lui di ora non sparisce, c'e' sempre, ma paga per il dolore antico.
Poi rifletto, e mi rendo conto che non e' soltanto questo. Sul passato si stratifica il presente, insieme alle paure per il futuro. Cammino, e mi guardo dentro, indago quella rabbia, cosi' veemente, cosi' tenace, esplosiva.
C'e' una storia d'amore per la quale ho accettato compromessi, per la quale ho lasciato una realta' che, per quanto complessa, e' stata la mia casa per gli ultimi sette anni, in un paese non mio. Per un amore che non credevo di provare piu' mi sono messa in gioco, e adesso sono a cavallo tra due mondi.
Il mio lavoro, ben pagato, precario, ma mio, dove vengo vista, riconosciuta, apprezzata. Dove so chi sono, da una parte. Dove mi celebro, mi esalto, mi ingigantisco. Dove mi proietto in un orizzonte di successo, pieno di senso e di realizzazione personale. Il mio lavoro competitivo, dove devi dare sempre il massimo, dove devi emergere in qualche modo. Il mio lavoro eccitante al confine della conoscenza, il mio lavoro che e' una sfida ogni giorno. Il mio lavoro dipende da me, e questo mi da' sicurezza. Io controllo. C'e', altri due anni, e poi si vedra' ma so che dentro di me, con l'impegno, la determinazione, qualcosa trovero', come e' sempre stato.
L'amore, dall'altra parte. Sentirsi accettati per come si e', e il desiderio di maternita' che torna in un contesto impossibile. Me lo sono venuta a prendere, questo amore, ho voluto farlo, consapevole dei rischi. Lo volevo. Sono atterrata qui, vicino a questo ufficio postale, ma mi sento incerta. Ho tirato fino al possibile la mia vita, stretchandola da la' a qua, sempre in equilibrio.
Camminando, rivedo il viso di mia nonna mentre mi dice "Claudia tu devi essere indipendente economicamente". Mi sento stanca. Mi sento di aver bisogno di un nido dove atterrare. E allora provo a immaginare una situazione in cui insegnare qui, in italia. Uno stipendio minore, ma la vicinanza, ricongiungere i mondi, ma trema tutto.
Perche'? cosa c'e'? C'e' che io sento di avere cambiato tutto, e di essere pronta a cambiare ancora, ma tutti i prossimi step che riesco a immaginare gravano sulle mie spalle, dal cambio di lavoro a una possibile gravidanza, e questo peso e' enorme.
E' un peso che nasce perche' quello che perdero' e' talmente totalizzante da non poter immaginare qualcosa di diverso, di migliore. Ed e' un peso che io sento come ingiusto, quasi intollerabile, che mi fa odiare la mia natura femminile, dinamica, attiva. Ingiusto perche' mentre io cambio, mi adatto, rinuncio, lui non cambia una virgola. Nelle grandi e nelle piccole cose. Lui cade in piedi mentre io mi frantumo, e mi devo rimettere insieme, reinventare. Io devo passare attraverso una trasformazione e dura accettazione del mio corpo che cambia, da' vita, si trasforma. E non solo. Devo anche cambiare lavoro, accettare di ridurre le ambizioni, e scoprire e imparare un modo diverso di trovare soddisfazione. Devo, devo, devo. Tuona il dover fare figli adesso, nelle parole degli amici, il dover prendere una decisione, come se fosse facile. Come se in Germania a lavorare, a inseguire una carriera di ricerca, ci fossi andata per scherzo, in vacanza. E che be', adesso e' ora che tu abbassi la testa e metta le cose a posto. E che finalmente accetti un ruolo subalterno magari, in cui quella importante non sei piu' tu, ma lui, e tu finalmente ti occupi di quello che lui non puo' fare perche' lavora, e il suo lavoro e' importante. Il tuo invece, beh, se vuoi una famiglia, a qualcosa dovrai pur rinunciare.
Questo dovere maiuscolo che incombe sulla mia vita, mentre lui non deve niente. Lo intuisco, che da questo mondo nuovo potrei imparare molto, ma l'intuizione non basta a sopire il senso di sconfitta, di rinuncia, di perdita.
Lo invidio, profondamente. Invidio il suo vivere centrato su di se', sul suo lavoro, e quei legami di cui io ho cosi' tanto paura perche' sembrano cosi' forti, addosso a lui sembrano labili. Sulla mia vita un figlio suona come una cosa immensa, totalizzante, e sulla sua? Mi accorgo che esco dalle persone e entro nei ruoli, quando penso a questo. E vedo che io odio questi ruoli, ma per quanto li combatto tornano sempre.
Mi manca terreno per sognare insieme. Avrei bisogno di rinnovata energia da parte sua, per spingere i sogni. Avrei bisogno di piani insieme. Di segnali concreti da parte sua di comprensione, empatia, solidarieta'. E invece mi ritrovo a fare i conti con aspettative cretine deluse, come l'idea di fare i lavori a casa per renderla nostra, il ritorno in Germania da sola, vecchio spauracchio che si dimena come sempre. Fare i conti con tutte le cose iniziate e mai finite, che tocca a me ricordare, portare avanti, dal mosaico al ripostiglio, all'armadio passando per la buganville ormai accartocciata fuori, che mi lasciano un senso di sospeso, incompiuto, precario, inutile. Cosi' come me.